Il lavoro generativo della scrittura piuttosto che l’oralità spontanea delle profondità oscure

A differenza dell’oralità della psicoanalisi sul divano, Orazio Maria Valastro si è impegnato nell’opera mitanalitica della scrittura autobiografica. Ausculta la rigenerazione della memoria piuttosto che le profondità freudiane o junghiane, o le strutture del linguaggio della superficie lacaniana, e da anni implementa questa pratica con gli Ateliers dell’immaginario autobiografico. In contrasto con il pessimismo patologico della psicoanalisi, o la nostalgia proustiana del tempo perduto, ha optato per la ricerca liberatrice del tempo ritrovato e la redenzione individuale che genera la riconciliazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo, in un unico movimento di scrittura rigenerativa. Ci fa intravedere lo slancio vitale di una nuova nascita, di una nuova possibilità, che io oppongo all’opprimente rimaneggiamento dello scavo puzzolente della cava freudiana o al pasticcio junghiano dell’origine arcaica della vita all’inizio dei tempi, prima dell’uomo.

L’autobiografia valastriana ci stimola a ri-immaginare la nostra vita individuale e il mondo alla luce di una scrittura in cerca della propria libertà, al ritmo del proprio respiro e del suo «ascolto sensibile». La mitanalisi che condivido con Orazio Maria Valastro ci separa dall’attrazione fatale di passati miserabili dove ci si impiglia ostinatamente in patologie (che riattiviamo con la psicoanalisi) per proiettarci nel possibile respiro della vita creativa che ripristiniamo nella rottura poetica con i luoghi comuni della vita, del linguaggio ordinario e delle loro oppressioni.

La scrittura autobiografica valastriana ci invita a sottrarci al determinismo delle infanzie traumatizzate che la cura psicoanalitica ci impone come terapia, per abbracciare poeticamente una nuova presenza al mondo affrancandoci dagli asservimenti appresi. È in quanto uomini liberati dalla schiavitù sociale che possiamo «avanzare a tentoni sul flusso dell’esistenza» invece di ricadere sul pendio scivoloso del passato. Impariamo a «lanciare la corda dell’amore alla quale siamo sospesi» verso il mondo e l’altro che possiamo diventare. Questa corda che Orazio Maria Valastro ci propone di cogliere, è «il filo della scrittura»del nostro vissuto che rivisitiamo.

Si tratta, come Ulisse di fronte ai mostri e alle seduzioni del suo lungo viaggio di ritorno, di sfuggire all’ipnosi delle disgrazie che hanno potuto distruggerci nel caos della vita. Rinominandole con le parole che decidiamo in modo creativo, possiamo liberarcene per reinventare il nostro rapporto al mondo, e rinascere emotivamente con tutta l’energia vitale dello sconfitto presto metamorfizzato in artista di sé stesso, in creatore di sé. Questo approccio comporta la scelta delle parole, una scelta ponderata, attenta, ripresa, corretta, compiuta, un mestiere della scrittura che mette in gioco la distanziazione dei suoi segni, l’energia delle sue immagini, l’oggettivazione delle metafore che portano le parole e che emergono nella coscienza. La scrittura pensata e cesellata di questo viaggio allontana, depura e trasforma con la potenza delle parole e la distanziazione immaginaria che ne deriva, l’erranza che abbiamo vissuto, evocandoci in un «dissenso poetico» e speranza fabulatrice di ciò che possiamo divenire in una rinascita di noi stessi. La scrittura autobiografica è un’arte liberatrice di sé.

La mitanalisi che condivido con Orazio Maria Valastro è quindi l’esatto opposto del fatalismo patologico della psicoanalisi. È orientata verso il futuro e non verso il passato, verso una speranza ottimistica e non verso i nostri vecchi dolori sepolti. La mitanalisi ci dice certamente, con un relativismo, anche un radicalismo estremo, che non ha nulla da invidiare ai disumanisti postmoderni, che tutto ciò che è reale è fabulatorio, tutto ciò che è fabulatorio è reale, ma, aggiunge nel suo postulato fondatore – e questo si oppone direttamente al dogma postmoderno –, dobbiamo saper scegliere le nostre fabulazioni ed evitare le allucinazioni [1].

A differenza dei disumanisti che hanno cercato di rovinare ogni credenza, il che è abbastanza facile in quanto il caos del mondo ci assale fino alla disperazione, la mitanalisi ci ricorda che è impossibile per l’uomo non credere in qualcosa. E poiché non credevamo più nella provvidenza animistica della natura, né in quella di un dio, né in quella dell’economia, né in quella della tecnoscienza, che non faranno alcun miracolo, nessuna di loro, non ci rimane che una sola opzione, quella di credere nell’Uomo, nella sua coscienza planetaria emergente e nella responsabilità creativa che ne deriva. Se non crediamo più nell’Uomo, non c’è soluzione. Ripetiamo questo mantra da anni senza essere ascoltati, ma sappiamo molto bene che l’idea alla fine prevarrà, non solo per la sua evidenza ontologica o metafisica, non solo per l’emozione dell’empatia solidale che proviamo nel nostro ascolto sensibile del pianeta, ma per imitazione della scommessa di Pascal sostituendo Dio con l’Uomo nella nostra disperazione, o ancor più semplicemente con il semplice ragionamento, anche con l’istinto biologico di sopravvivenza della nostra specie, che non possiamo esporre ostinatamente al rischio della nostra annunciata autodistruzione. Michel Foucault aveva sviluppato un singolare pensiero critico. Amava gli uomini, ma affermava di non credere nell’uomo. Ne annunciava persino la sua scomparsa. La sua visione dolorosa, incompatibile con le posture di Gandhi, di Martin Luther King, di Mandela o, in un altro registro, di John Lennon, lo rese certamente un uomo impegnato; ma cosa avrebbe fatto al loro posto, nei loro contesti infernali? La mitanalisi non è dalla parte dell’intelligenza acida, ma dell’ottimismo utopico e dell’empatia di Gandhi, King, Mandela. Sono questi uomini che hanno cambiato il mondo. E a differenza di Foucault, credevano con fervore e ostinazione nell’Uomo.

Hervé Fischer
L’arte mitanalitica, prefazione al volume Poetiche contemporanee del dissenso: immaginari del corpo autobiografico, di Orazio Maria Valastro, pubblicato da Aracne Editrice, Roma, Aprile 2021, 316 pp.

Hervé Fischer: filosofo e artista multimedia di nazionalità francese e canadese. Le sue opere sono state esposte in numerosi musei e biennali internazionali in Nord America e in Europa. Fondatore e presidente della Società Internazionale di Mitanalisi – www.mythanalyse.org (Montréal, Québec – Canada). Direttore dell’Osservatorio internazionale del digitale (Università del Québec).


[1] Vedi i postulati e corollari della mitanalisi: www.mythanalyse.org.

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