La poesia immaginifica di Maria Gemma Bonanno

Si afferma e divampa una visionarietà quasi disperatamente oracolare della poetessa che vede ben oltre i limiti imposti dalla nostra fisicità e capacità di sguardo e che perciò soffre e ama. Si genera così una poesia del dolore e dell’incanto che attraverso il dolore e l’incanto, le visioni e lo sgomento, diventa realtà, verità.

Una snervante ma feconda scissione che si produce e che potremmo per approssimazione definire come quella tra il tempo diurno e quello notturno, in cui in cui la Testimone diurna registra ed esercita la capacità narrativa degli avvenimenti e degli uomini, che si proietta à rebours indietro o in avanti, mostrando tuttavia l’insufficienza della nuda percezione:

Ecco perché questi versi ci parlano dell’amore. Anzi, per dirla meglio, sono essi stessi un atto d’amore.

Questa molteplicità esistenziale e prospettica si riflette e si esprime anche in altre poesie non necessariamente collegabili per tempi o per volontà da parte della Bonanno di farne un corpus, ma che ne testimoniano le tante sfaccettature, come piccole costellazione la cui luce non si sostituisce o copre quella solare e quella lunare, ma ne aggiunge impercettibili tonalità.

La ricchezza e la frammentazione quasi identitaria, certamente esistenziale, fa sì che la Bonanno abbia nei confronti dello scrivere un atteggiamento quasi sensoriale, da medium, sempre in attesa di una qualche rivelazione che possa legarsi ai suoi ritmi poetici, unendo i suoi studi metrici all’ispirazione e all’istinto del verso. Tutta la sua poesia è caratterizzata dalla tensione fra l’irrequietudine del sentimento e la fermezza del pensiero che costituisce la dinamica interna comune ai singoli testi, veicolando l’opposizione fondamentale della scrittura: quella fra la tragicità della coscienza intellettuale e la felicità dell’esperienza formale.

«Tentare di parlare di ciò che è stato, sarebbe impossibile. L’Abisso non ha Biografo»: è una delle frasi celebri di Emily Dickinson (a Martha Gilbert Smith, verso il 1884, 899), eppure innumerevoli sono stati e sono i critici e gli storici che hanno voluto e tentato di penetrare nel vero o presunto mistero della poetessa di Amherst; la recente biografia di Lyndall Gordon: Come un fucile carico, sostiene che all’origine del ritiro claustrale di Emily Dickinson nella propria stanza c’era una malattia considerata ai tempi vergognosa, soprattutto per una donna: l’epilessia, sia pure nella sua forma più lieve di “piccolo male”.

Maria Gemma Bonanno nella sua “Epilessia autobiografica” (Vol. 2 2020 Cassandra Poetiche autobiografiche, Collana diretta dal Sociologo Orazio Maria Valastro), racconta in versi ed in prosa il primo apparire ed il lungo e continuo rapporto con questa malattia che anche oggi, nell’opinione comune incute paura e sospetto e colloca chi ne è affetto sul filo sottile del: “segnato da Dio”, oggetto di pietoso sgomento, incarnazione del sacro.

Apparve dopo la morte del nonno carissimo, quando lei ha pochi anni. Racconta: “Cominciai a sognare seduta nella mia sediolina, guardando l’Etna. Se mi chiedevano cosa stessi osservando rispondevo pronta «la Montagna!», e mi addormentavo con la bambola di pezza tra le dita. Le assenze erano piccoli attacchi epilettici. E gli altri: «com’è brava questa bimba, non si muove e dorme sempre nella sua sediolina, ma quanto è saggia». E pensavo tra di me, «chi aggiusterà le mie bambole rotte, chi costruirà i pastorelli del grande Presepe, il nonno no, impossibile, lui non c’era più». E continuavo a farmi cullare da quei colori abbaglianti che quando stanno per arrivare le crisi si fanno vedere. Io li chiamo il caleidoscopio epilettico”.

Accanto alla paura, allo sgomento per questa diversità che inevitabilmente la isola dalla realtà, matura tuttavia una consapevolezza che deciderà della sua vita e della sua visione del mondo.

Una maledizione, un dono degli Dei con il quale crescendo imparerà dolorosamente a convivere, trasformandolo nelle sue mani in strumento di veggenza, di percezione di ciò che è solitamente invisibile, sul cielo e sugli astri, nelle profondità dell’animo umano.

E’ probabile che, a un certo punto, Maria Gemma Bonanno, si sia servita della sua “malattia”, per selezionare e allontanare da sé le cose, le situazioni, le persone che non rientravano nel suo mondo e lo mettevano in pericolo, come la spiritualmente vicina Emily Dickinson che dichiarava: «L’anima seleziona la sua corte -/ poi – chiude la porta -», ed ancora: «Non sarai mai prigioniera -/ finché ti abita -/ la libertà – in persona -».

Maria Gemma Bonanno ha pubblicato poesie per tutta la vita, scrive perché per lei è essenziale e possiamo azzardare anche terapeutico. Ha fatto medicina mentre scriveva. Per lei, per cui la mente razionale è un valore reale contro la miopia di gente gretta e le false leggi della storia, avere una “eclissi momentanea della ragione” è vita e alimento. Forse la sanità mentale di una persona dipende un po’ anche dalle scelte che fa, dagli incontri che le capitano, dagli amori, e da quanto impervio è il tragitto. Però, alla fine, è vero che la poesia non si addice alla vita normale.

Così Maria Gemma Bonanno ci propone un’allegoria della problematicità dei rapporti con i tormenti dell’immaginazione, i dubbi che rovinano gli istanti idilliaci, le schermaglie, la fiducia e il suo contrario, la rabbia e l’angoscia della perdita. Un canto d’amore e di epilessia, o meglio un canto d’amore che si muove fra lo spavento della ragione e il fascino della visione. Allucinazioni e parole e immagini che si rincorrono e si ripetono di poesia in poesia. Leggerle significa ogni volta ritrovarsi e perdersi, appartenere emozionalmente e sonoramente al verso, sentirsi penetrati dalle parole e dalle visioni della Poetessa che scrive e che canta, soffre e ama, mentre il lettore legge e ascolta, soffre e ama. E delira con lei.

Domenico Amoroso
Curatore dell’antologia poetica “Il Ramarro sussurra” di Maria Gemma Bonanno

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