Mitanalisi del patrimonio immateriale

Mitanalisi del patrimonio immateriale

Perché attribuiamo un appellativo così magniloquente, patrimonio dell’umanità, a ciò che non è né un monumento, né un paesaggio, né un oggetto tangibile e durevole, ma è invece conoscenza orale o scritta, memorie, pratiche artigianali, costumi, canzoni, danze, feste, rituali, gastronomia, fauna o flora locale? Perché conferiamo adesso un valore universale a ciò che è spesso peculiare e singolare? E, da dove ci viene questa paura di perderne la memoria? Da dove prendiamo l’attaccamento a queste pratiche umane, fragili e spesso marginali, e il desiderio di preservarle in un mondo improvvisamente globale? All’UNESCO chiediamo di sottrarre questo patrimonio intangibile, minacciato di estinzione, all’accelerazione del tempo sociale che cannibalizza la memoria umana.

Ci contrapponiamo a un immenso dispendio di energie tese a dare priorità al futuro e al progresso che ci governano. Le emozioni, le paure e i desideri, indicano sempre la presenza di un mito attivo nel nostro inconscio collettivo. Il mitanalista si chiede, pertanto, qual è il mito che dà tanto valore al nostro patrimonio immateriale. Potrebbe essere la paura della morte, nella quale Gilbert Durand ha individuato l’origine del pensiero mitico? La battaglia sarebbe quindi tragica: persa in anticipo.

Ma perché una simile ipotesi, così teorica, che lega la formazione dei miti alla disperazione, non colloca piuttosto la gestazione della fabulazione mitica nella biologia della nascita di ogni essere umano, nel suo rapporto immaginario ed evolutivo al mondo che nasce a lui. Questo fondamento della mitanalisi che noi postuliamo, mette in risalto l’istinto di vita biologico dell’infans che tenta progressivamente di tutelare la sua sopravvivenza, di sviluppare la propria autonomia, di controllare il suo corpo e la sua condizione sociale. E implica dei valori positivi, non di paura, ma di affermazione individuale, di conquista, che si concepiscono necessariamente nella costruzione del futuro.

Dire che la nostra posizione sia radicalmente opposta a quella di Gilbert Durand, sarebbe un punto di vista semplicista. L’istinto di vita è un impulso che si sente sempre minacciato e che si nutre della volontà di sfuggire alla morte. La speranza della vita e la paura della morte sono le due facce dello stesso mito vitalista, necessariamente ambivalente: l’affermazione di una volontà di creazione che si oppone alla coscienza tragica della vita, di cui facciamo l’esperienza istintivamente fin dalla nostra nascita, è costantemente minacciata dall’annientamento e sarà infine vinta dalla morte. Una battaglia permanente che costituisce la condizione stessa della nostra esistenza umana, che stimola la nostra energia, la nostra intelligenza, il nostro spirito d’intraprendenza, ma non senza un’emozione profonda e permanente dove si alternano il desiderio e la paura.

Ecco che vediamo più chiaramente da dove ha origine la nostra visione del rispetto del patrimonio materiale e immateriale: la celebrazione della vita si afferma dominando la paura. Un’attitudine biologica individuale che l’UNESCO istituzionalizza a livello collettivo, sociale e internazionale.

L’immateriale è dell’ordine dell’effimero, della fragilità nell’esperienza vissuta. Si può anche dire che è la peculiarità della vita, come la polvere di cui ci ha fatto il Dio biblico. È l’opposto dell’eternità e quindi tanto più prezioso. Sembra un’intensità passeggera che deve essere immediatamente consumata, della quale bisogna affrettarsi a goderne prima che svanisca il suo splendore: una danza, un sapore, un evento, una parola, una musica, un paesaggio il cui piacere spesso risiede nella coscienza della sua brevità o della sua fragilità. Il presentismo dell’immateriale deriva da un’illusione: la permanenza del tempo che sappiamo essere un miraggio. Ecco il paradosso del nostro compiacimento.

È quindi doppiamente paradossale che si pretenda di eternare la sua esistenza al punto di consacrargli un capitolo delle leggi e dei bilanci dell’UNESCO. Nulla è più prezioso, per noi, di questo simbolo dell’effimero stesso della vita umana che vogliamo rendere eterno. È la specificità della fabulazione mitica, quella di immaginare il nostro rapporto con il mondo sotto il segno del nostro desiderio e della nostra paura, di Eros, di Thanatos, ma anche di Prometeo, il nostro istinto di potenza, che pretende dare all’umanità dei poteri divini. Tre facce dello stesso mito originario, di origine biologica, della creazione del mondo da parte dell’infans, di colui che non parla ancora, impotente ma che immagina, e che prenderà crescendo la sua rivincita cogliendo il mondo nella rete dei suoi concetti e delle sue istituzioni.

Hervé Fischer
Prefazione al volume «Immaginari del patrimonio culturale immateriale»
Volume a cura di Orazio Maria Valastro, pubblicato nella Collana I Quaderni di M@GM@ da Aracne Editrice

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